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lunedì 28 febbraio 2011

Come Si Tramanda Il Senso di Colpa





"Il rimorso è importante. E' tutto, il senso di colpa; sennò puoi essere capace di cose tremende... Capisci? E' importantissimo il rimorso. Io lo sento continuamente e non ho fatto mai niente..." 

(Woody AIlen a Mia Farrow in "Broadway Danny Rose') 



Dunque Woody Allen riconosce il senso di colpa in termini di rimorso. Di cosa saremmo capaci, stando alle sue parole, se fossimo liberi dal senso di colpa? E soprattutto: cos'è? Per rispondere alla prima delle due questioni, dirò che, a mio immodesto modo di intendere non ne ho la più pallida idea, di cosa saremmo capaci. Non nego che d'acchito il mio pensiero è andato a soprusi, angherie, sopraffazioni, guerre, ingiustizie, e chi più ne ha più ne metta...


Qualcuno potrebbe asserire non essere quello che ci venga scodellato quotidianamente e ci veda, con ingredienti e dosaggi variegati, grosso modo tutti quanti fatti oggetto? Credo piuttosto nel contrario, all'epiteto alleniano. Credo che, se fossimo finalmente liberi dal complesso di colpa, sia ragionevole immaginare una società civile degna di questo appellativo. Senz'altro non più cruenta della contemporanea: fate uno sforzo d'immaginazione, e provate a pensare alla cosa più terribile che vi possa venire in mente...


Fatto? Beh, sappiate che non vi siete nemmeno avvicinati a ciò che realmente, da qualche parte, sta accadendo. Come faccio a saperlo io? E' un trucco. Ne parlerò un'altra volta. Promesso. Dico questo per sottolineare che la realtà è sempre più complessa della finzione, la quale schematizza semplicizzando e rendendo fruibile la realtà stessa.


Ma torniamo in carreggiata, e affrontiamo la parte più difficile, ovvero dare una definizione del complesso di colpa. Cerchiamo anzitutto di localizzare il veicolo attraverso il quale si muove, pone radici e riproduce: l'educazione. E' verosimile pensare che un contesto familiare ove tale complesso si annidi, veda la nuova generazione "a rischio di contagio": il famigerato "ambiente patogeno" tanto caro - si fa per dire - agli operatori, considerato il primo vero problema da affrontare, la fonte da estinguere.





Un padre, una madre affetti (si tenga presente che sono rarissimi i casi in cui i genitori hanno coscienza del proprio disturbo) dal complesso di colpa non potranno che trasmettere la propria esperienza, conoscenza, vissuto al pari di qualsiasi altro senso di colpa genitore ai propri figli, considerando essi il proprio "lavoro" di educatori come una realtà a sé stante, imprescindibile, consacrata e santificata dal sacrificio, lo sforzo, la rinuncia.


Ed eccola qua, la "maledetta" che invariabilmente fa la propria entrata in scena sotto mentite spoglie: la rinuncia. Nella nostra cultura è considerata, forse, la più alta e nobile tra le azioni umane. Rinunciare a un desiderio, di qualsivoglia natura, apparentemente fortifica il nostro ego, e ci rende orgogliosi di noi stessi. Non voglio farne una questione morale, però, attenzione, non dobbiamo dimenticare mai che cosa succede nella nostra testolina, in particolare quando questa non ci rimanda segnali percettibili o associabili direttamente ad una nostra azione.


Se è vero (ed è vero!) che spesso la rinuncia ad un progetto, all'acquisizione di un bene da parte nostra è legata ad una scelta oggettiva, del tipo: - Non compero le scarpe a me stesso perché ne ha bisogno mio figlio - ebbene, sappiamo che tale "violenza" praticata verrà per certo razionalizzata ed accettata, ma ad un altro livello della nostra mente andrà a ingenerare e/o arricchire una tendenza, disposizione alla rinuncia al piacere personale.


Giocoforza, qualora si presentino delle situazioni in cui il piacere non sottenda ad una rinuncia o scelta oggettiva, il nostro "meccanismo" comunque scatterà, facendoci rifiutare, o rinunciare, al piacere stesso. Sembra un paradosso, un contro-senso, e in effetti lo è. Un meccanismo perverso. Ma credere che la nostra mente sia territorio di caccia esclusivo del raziocinio, è un errore madornale! Il sottotesto è enunciabile in questi termini: "Se mi capiterà qualcosa di piacevole, nella vita, ci penserò io a gettarlo alle ortiche".


Crediamo non sia verosimile che un genitore minato (inconsapevolmente!) da tale processo interno, non tramanderà alla prole il medesimo "modus operandi"? Va tenuto in considerazione che quanto è stato appena esposto non riguarda tutti gli esseri umani. Si può tuttavia pensare a una ingente quantità. Non è necessaria una visione del piacere in una prospettiva dannunziana, per dare spazio al desiderio, quindi agire "sanamente" nei propri confronti. E laddove il desiderio crei un senso di colpa, beh, ricordiamoci che non c'è nulla di Divino in tutto ciò, né tantomeno fortificante, o di cui farsi antesignani andando fieri.

Non esiste una strada sbagliata. Ogni strada ti porterà a una destinazione.


A presto!


Mario Pullini




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